La Parola ha un contesto «familiare» ove risuona: la comunità. La Parola di Dio è per noi casa. La casa indica lo stare, l’abitare in uno spazio preciso, protetto, familiare; l’intrattenersi, il relazionarsi; l’accogliere e l’ospitare. La casa diventa il luogo da cui ogni giorno si parte e ove ci si ritrova la sera. Nel linguaggio di ogni giorno poi, «casa» si identifica con «famiglia».
La comunità che abita nella casa resta sempre da «costruire». Come avviene questo? Attraverso la conversazione, il dialogo. Il dialogo è vita. Permette il confronto. Dà calore e colore alle relazioni. Assicura alle persone il loro carattere di persone. Si può dire: finché c’è la parola, c’è speranza.
I due quadri che contempliamo lo affermano con i colori e le forme di due artisti lontani nello stile e nel tempo.
Il grande pittore olandese Jan Vermeer, oltre che per i suoi ritratti (in particolare “Fanciulla con turbante”, detta “La ragazza con l’orecchino di perla”) è conosciuto per le sue suggestive vedute di interni. Protagonista dei suoi dipinti è sempre la casa, in cui stazionano pochi personaggi, abbigliati alla moda fiamminga del ‘600, avvolti dalla luce che penetra dalle finestre poste sulla sinistra dello spettatore.
Alla produzione giovanile di Vermeer è attribuita questa tela: si tratta di una scena di interno che ha ancora una volta come protagonista una casa, quella di Marta e Maria, in cui Gesù viene ospitato, così come ci racconta il Vangelo di Luca (10,38-42). Il nostro artista qui è chiamato a confrontarsi con un tratto della più alta spiritualità cristiana che si manifesta proprio dentro una casa. E proprio per concentrarsi sul soggetto evangelico, Vermeer riduce al minimo le note descrittive e di ambientazione. L’opera si colloca a metà strada tra la pittura religiosa e quella cosiddetta “di genere”, per questo, a prescindere dalla leggera aureola attorno alla testa di Gesù, non ritroviamo nessun elemento sacro.
La composizione di Vermeer è impostata su quattro piani: davanti a tutti, in basso sta Maria, figura umile, ma che ha una certa preminenza; di seguito, la figura di Cristo, spostato sulla destra di chi guarda; leggermente arretrata troviamo poi Marta, che occupa la posizione centrale e culminante della piramide umana; sullo sfondo infine è mostrato un accenno di arredamento, con le pareti della stanza che chiudono la visuale.
Maria, in primo piano, è seduta ai piedi di Gesù. È tutta rivolta a Cristo. In questa giovane donna, Vermeer ha saputo incarnare il valore dell’ascolto, della contemplazione. Maria sembra assumere lo stesso sguardo del Signore, impedendo che le pur giuste preoccupazioni del servizio assorbano totalmente la persona. Proprio sopra di lei, si intravedono le porte aperte di un armadio, simbolo di apertura e della disponibilità a lasciar entrare la Parola nella sua casa e negli spazi interiori del cuore. Molto bella è la postura di Maria, tipica della meditazione, con la testa appoggiata alla mano destra, mentre la sinistra è abbandonata sulle ginocchia. La sua figura ci ricorda che il Signore non contrappone l’azione alla contemplazione, ma vuole mostrare ciò che sta al fondamento dell’agire cristiano: l’ascolto fiducioso della Parola che poi fruttifica nell’amore.
In opposizione a Maria, che è seduta, immobile e passiva, Marta viene rappresentata in piedi ed attiva: sta portando in tavola un cesto col pane. La figura di Marta occupa la posizione centrale. Marta, proprio per il suo servizio rivolto a Cristo, era stata esaltata da Maestro Eckhart e da Santa Teresa d’Avila che ne aveva fatto un modello per le sue Carmelitane. I Gesuiti inoltre tratteggiavano il profilo ideale del cristiano “contemplativo nell’azione”, ricomponendo così la tensione tra Marta e Maria. Marta è l’immagine stessa dell’accoglienza, di quell’accoglienza che consiste nella carità e che ha come sorgente l’Eucaristia. È Marta che offre riparo, riposo, cibo, cure: è lei che ha steso la bella tovaglia bianca sulla mensa ed ora serve il pane. Vermeer sembra dunque interpretare positivamente il senso con cui Luca la prefigura come simbolo di tutti coloro che accolgono gli annunciatori della Parola.
Cristo è seduto di fianco, su una seggiola importante che ne esalta il ruolo. Solo il suo volto è totalmente illuminato: mentre con lo sguardo si rivolge a Marta, con la destra indica Maria come colei che ha scelto la “parte migliore” contro il rischio di una “santa” agitazione, che va rieducata continuamente dalla Parola! Per Gesù, si tratta di ristabilire, in questa casa, l’equilibrio tra ascolto e servizio, evidenziando che il secondo, nasce dal primo e resta evangelico nella misura in cui non funziona autonomamente, ma si radica nell’ascolto della parola di Colui che ci ha amati per primo e che ci dona il suo Spirito d’Amore.
In questa casa, ci troviamo di fronte ad un’icona evangelica di ospitalità, di incontro, di comunione fraterna. Per diventare fratelli e sorelle di Gesù bisogna essere tra coloro che “ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (8, 21). Questo dipinto ci mostra che l’ascoltare autentico è obbedire ed operare, è far sbocciare nella vita l’accoglienza e la gratuità. Si tratta ancor oggi di abitare in questo modo la casa della Chiesa, per offrire una testimonianza credibile che costantemente unisca ascolto e vita, fede e carità, culto ed impegno sociale.
Le nostre comunità sono chiamate a ridipingere questa scena ridonando il primato alla Parola, a quella Parola che non distrae dalla quotidianità, ma che suscita l’attenzione al fratello, alla storia, al mondo. San Benedetto, e gli altri grandi uomini di Dio che hanno coniugato mirabilmente l’ospitalità divina a quella umana, sono diventati autentici capolavori evangelici.
Il vero discepolo non solo “spiega” le Scritture, ma le “dispiega” davanti a tutti come realtà viva e praticata: è per questo che la lezione del servizio e della misericordia è una lettura/lezione vivente della Parola divina. Possano dunque le nostre Chiese restare sempre “Case della Parola e del Servizio”, in cui incontriamo i fratelli e le sorelle di altre Chiese, di altre religioni, di altri popoli… Un segno eloquente e profetico di accoglienza evangelica, in un mondo dove sembra prevalere la corsa, l’affanno e la dispersione.
Molto diverso è il dipinto di Nolde, rappresentante dell’espressionismo, che lascia i canoni estetici a cui siamo abituati per comunicarci, con vivezza di sentimenti e di impressioni, il messaggio biblico. La Pentecoste rappresenta un modo di essere Chiesa e quindi casa della Parola.
Emil Nolde segnò come data fondamentale della sua produzione religiosa il 1909, l’anno in cui dipinse questa Pentecoste, in parallelo con l’Ultima Cena e poi anche con la Derisione di Cristo. Queste opere non vennero commissionate da nessuno: l’artista le creò solo per una sua “ispirazione”, per un suo desiderio interiore. Ad un certo punto della sua vita, dopo aver elaborato uno stile personale maturo, che fu all’origine dell’Espressionismo tedesco, Emil Nolde riformula in un modo personalissimo l’iconografia religiosa. In questi dipinti ritroviamo dunque i caratteri distintivi della sua arte: il colore impiegato in estrema libertà, il disegno secco e ridotto al minimo, le emozioni sempre portate all’estremo nei volti e nei gesti dei suoi personaggi. La sua arte fu considerata dai Nazisti “arte degenerata”, e dovette fare i conti anche con la censura delle chiese (sia cattolica che protestante), causata della sua libertà d’espressione, considerata scandalosa e troppo innovativa. Ma pur conservando la sua originalità estetica, Nolde ha sempre cercato la più fedele attenzione ai testi delle Scritture.
Nel 1930, in una sua lettera ritroviamo questa espressione: “Nei miei dipinti religiosi, obbedendo ad un’istanza di verità, ho rappresentato i giudei come erano realmente e come mai erano stati dipinti. Nelle opere d’arte dei secoli precedenti gli apostoli ed i personaggi biblici erano stati dipinti sempre come se fossero degli italiani, o dei letterati e borghesi del Nord-Europa. Io li ho restituiti, come il Cristo, al loro popolo”.
Anche in questa Pentecoste è presente l’eco della sua fede, coltivata nel culto domenicale, nell’istruzione religiosa regolare che faceva parte della sua vita quotidiana, come pure nella lettura della Bibbia fatta in casa. Emil Nolde ricorderà sempre con nostalgia le lunghe sere d’inverno passate in casa, in ascolto delle storie bibliche, e quando arriverà ai quarant’anni comincerà a farne il soggetto privilegiato della sua pittura straordinariamente innovativa.
In questa Pentecoste l’artista ci pone bruscamente di fronte alle figure, violentemente espressive, degli apostoli: essi compongono un cerchio umano ritmato dalle fiamme dello Spirito Santo che si posano su ciascuno. Sono gli uomini che poi usciranno dalla casa per essere testimoni del Vangelo; da queste bocche scaturiranno le voci che annunceranno il Kérigma (il Primo annuncio) e porteranno nel mondo il vento della novità pasquale, e proprio per questo motivo Nolde si rispecchiava in essi, poiché lui pure sentiva di dover portare la notizia della sua novità nel mondo dell’arte.
Il pittore ha saputo inserire accuratamente in questo quadro anche altri elementi caratteristici della comunità cristiana nata a Pentecoste, e cioè la liturgia, la preghiera, la vita fraterna (cf. At 2,42). La presenza della mensa al centro del dipinto crea immediatamente un clima liturgico e ci comunica il significato di un’esperienza eucaristica: sulla luminosa tovaglia non ci sono né pane, né vino, ma attorno a questa Mensa c’è l’assemblea riunita che entra in dialogo intimo col Signore e vive il momento che è fonte e culmine della vita cristiana. Ricordiamo che questo dipinto di Emil Nolde era stato realizzato in concomitanza con quello dell’Ultima Cena, di cui riprende fedelmente ed in modo speculare l’impostazione. Nolde insiste, nelle sue opere religiose, sulla comunione tra Cristo ed i suoi discepoli, i cui tratti sono rudi, spigolosi e vigorosi.
Sulla mensa, il nostro sguardo è attirato dalle mani. Le prime due, giunte, sono quelle dell’apostolo in posizione frontale: sono mani oranti che evocano i “salmi, gli inni, i cantici spirituali” con cui prega la comunità (cfr. Colossesi 3, 16). I discepoli accolgono il dono dello Spirito in un contesto di preghiera. Altre due sono le destre intrecciate dei due discepoli dai capelli neri in primo piano. Queste mani sono il simbolo dell’agape, dell’amore fraterno che costituisce il cemento della casa-comunità. Questo vincolo di comunione non nasce primariamente dalla costruzione strategica di un consenso, ma dal rimanere in perenne stato di conversione verso quel centro che è il Signore Gesù, con l’aiuto dello Spirito Santo. Il senso della fraternità è suggerito anche dalla quinta mano posata sulla spalla della figura centrale, come per far sentire una presenza che scalda, che incoraggia, che sostiene.
Quest’opera di Emil Nolde esce dalle nostre rappresentazioni tradizionali e sa sorprenderci ancor oggi, mostrandoci un evento della Storia Salvifica, con un linguaggio visionario che sa farci contemplare il mistero di una Chiesa che trova il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata sugli apostoli, la cui architettura era basata sulle quattro colonne ideali dell’insegnamento, la comunione fraterna, la frazione del pane, la preghiera.
Nel dipinto di Nolde ritroviamo queste note riassunte in pochi tratti ed in poche tonalità di colori primari. Questa tela nasce dall’intensità spirituale di un artista che sente profondamente ciò che rappresenta. Nolde con la sua pittura “controcorrente” può stimolarci ancora oggi a sognare una Chiesa “controcorrente”, sempre disponibile ad accogliere la Parola e a lasciarsi rinnovare dallo Spirito Santo.
“Coltiviamo un sogno audace, il sogno di una chiesa minore: minore perché conserva sempre un pezzo di pane e non nega nessuno il Pane di Vita; minore, perché ama rimanere in compagnia degli ultimi della fila; minore perché ascolta, compatisce e non giudica; minore perché preferisce porre domande che fornire risposte; minore, perché testimonia con la vita la verità senza imporla con la forza con le leggi; minore, perché si trova a suo agio con i perdenti piuttosto che con i vincitori; minore, perché non spegne la debole fiamma della speranza; minore perché non ama vivere sotto i riflettori e preferisce i percorsi polverosi della terra alle piazze osannanti delle metropoli; minore perché ama la tenda e diserta il palazzo; minore, perché è così piccola da trovare sempre un posto all’ultimo arrivato” (padre Silvano Nicoletto).